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Geopolitica Europea

Il Coronavirus e la Mano Visibile del Capitalismo di Stato

La Mano visibile del Capitalismo di Stato è alla base della autodichiarata vittoria della Cina sull’emergenza sanitaria. Possiamo parlare di giusta medicina?

I leader europei come gli stessi popoli hanno più paura dei loro omologhi dell’estremo Oriente perché il pensiero comune della classe dirigente ha timore di dichiarare che lo Stato è alle loro spalle e farà finanziariamente di tutto per sostenerli.

Una prerogativa di questo genere sposterebbe l’asse del monopolio del progresso economico in un’altra direzione scavalcando le derive Neoliberiste aggressive e poco collettivamente organizzate che hanno lasciato il popolo anarcoide e individualista al suo destino.

Se avete un po’ di tempo potete leggere questo articolo che ho scritto 6 anni fa. La cosa che colpisce di più è il sostegno immediato dell’apparato statale cinese in caso di crisi. Non dico che sia una strada interamente percorribile in Europa, ma potrebbe essere una via di mezzo per un progresso collettivo di un sistema democratico.

LA MANO VISIBILE DEL CAPITALISMO DI STATO
E’ sbalorditivo come il Governo cinese tramite la Banca Centrale da un giorno all’altro ha iniettato 35 miliardi di dollari nell’economia senza sprecare quintali di inchiostro e metri cubi di fiato. Per simili cifre in Europa bisogna spostare “Monti”, appellarsi ai “Draghi” o prendere “Mer..Kel” in faccia!

L’economia è in crisi? Faccio l’operazione economica più ovvia, stampo moneta. Un’azienda è in difficoltà, ma è troppo grande “socialmente” per farla fallire, allora la compro ossia la nazionalizzo. C’è un problema di evasione? Mettiamo pene severissime contro questi tipi di reati finanche la pena capitale. Semplici rimedi di un paese anti – democratico e formalmente comunista.

Ma quale forma di Stato, quale modello economico stanno adottando i cosiddetti paesi emergenti?

In principio fu la Mano invisibile del Capitalismo classico di Adam Smith. Poi fu creato il pugno chiuso Comunista di Lenin e dei bolscevichi. Infine Keynes, si potrebbe dire con un po’ di blasfemia economica, mettendo insieme un po’ di visibile (pensiero collettivista) e lasciando il resto all’ invisibile (pensiero capitalista) creò il Welfare State, cosicché dal 1930 al 1970, sia le dittature che le democrazie trovarono opportuno utilizzare questo sistema che creava le migliori condizioni per uno sviluppo duraturo e un benessere diffuso . Socialmente, la libera iniziativa economica privata permetteva all’individuo di auto realizzarsi e mentre l’intervento dello Stato creava le premesse per una buona dose di eguaglianza sostanziale per colmare le disfunzioni del capitalismo.

Seppur in contaminazione tra loro i due mondi rimanevano distanti. Negli anni ‘80 le privatizzazioni, le riforme del lavoro e le liberalizzazioni attuate da Ronald Reagan, Presidente statunitense, e da Margareth Thatcher, la Lady di ferro britannica, invertirono il trend e il Welfare State incominciò a ritirarsi. Anche gli altri paesi Europei occidentali dopo il trionfo del capitalismo sul comunismo avvenuto con la dissoluzione dell’URSS abbracciarono il vento del neo – liberismo. I parametri di Maastricht e la necessità di riduzione del debito hanno fatto il resto e cosi lentamente l’indice della libertà economica passò da 5.5 del 1980 al 6.7 del 2007.

In pillole questa è la storia economica dell’Occidente fino all’arrivo della crisi finanziaria del 2008 la quale pose seri dubbi sul modello neo – liberista e sulla sua mano invisibile. Così, il mondo alla ricerca di alternative economiche sta scoprendo un’altra dimensione di capitalismo che in parallelo fluttuava con l’ufficiale: il capitalismo di stato.

Una nuova forma di capitalismo? Per il settimanale inglese The Economist è meglio dire, una vecchia forma tornata in auge. Infatti, la più grande compagnia di stato, state – owned enterprise (SOE), fu creata dai perenni difensori e portatori sani del libero mercato: gli inglesi. La britannica East India Company è stata la prima e forse ancora la storicamente più grande azienda di Stato di sempre. Considerando tale verità, potremmo attribuire ai sudditi di Sua Maestà anche la paternità del capitalismo di stato. Senza offesa naturalmente.

Ma la storia recente è più interessante. Alla fine degli anni Settanta nel paese più popoloso del mondo, la Cina, si effettuarono delle riforme di eguale portata storica di quelle dell’allora sviluppato Occidente. La Cina Maoista della rivoluzione culturale e del partito unico comunista fino ad allora con poche deviazioni dal pensiero di Tze Tung, introdusse, seppur blandamente, sensibili riforme volte ad aprire l’Impero di mezzo al libero mercato. Sul modello di Singapore, Deng Xiaoping inaugurò le special economic zone, dove vigeva l’iniziativa economica privata ed era possibile effettuare investimenti diretti esteri. Nessuno però poteva immaginare che tali innovazioni avrebbero portato ad uno tsunami nell’economia cinese.

Da quel momento l’economia cinese iniziò a svilupparsi crescendo a ritmi sempre più alti (9.5% di media annua) diventando nel 1993 importatore di petrolio; entrando nel 2001 nell’Organizzazione del commercio mondiale; superando nel 2008 il PIL del Giappone, fino a raggiungere nel 2010 il titolo del più grande consumatore d’energia mondiale e ad avere la più grande azienda di stato quotata in borsa con oltre 600 mil. di utenti: la China Mobile.

Qual è il segreto del suo successo? Ci vorrebbe la bacchetta magica per scoprirlo, ma possiamo analizzare un aspetto ad esso correlato.

Il controllo capillare della società e dell’attività politica ha fatto si che l’economia seppur libera ha mantenuto sacche importanti di controllo. Alcune attività economiche “too precious to let go” soprattutto nel comparto delle telecomunicazioni, energia e infrastrutture sono rimaste nelle mani dello Stato. Tali aziende poterono contare su riserve di capitale enormi e su un bacino d’utenza praticamente fedelissimo in un quasi regime di monopolio. Il sistema derivante ha tuttora al suo interno delle disfunzioni economiche come il controllo politico sulle aziende e la mancanza assoluta di concorrenza, che non sono ancora esplose.

Ciononostante, i record cinesi hanno fatto negli anni proselitismo e altre grandi e piccole nazioni hanno seguito, seppur con diverse varietà, la via cinese di sviluppo. La deriva o la fortuna del capitalismo di stato ha creato negli anni delle aziende gigantesche che hanno eroso lo spazio del libero mercato.

Basta citare le 13 compagnie di stato del settore petrolifero che insieme hanno in mano il 75% dei giacimenti di petrolio. L’iraniana NIOC è la più grande al mondo seguita dalla saudita Saudi Aramco e dalla venezuelana PDVSA che concludono il podio.

La Sberbank, banca di stato russa, è la terza banca europea per capitalizzazione. Il porto di Dubai, di proprietà degli Emirati Arabi Uniti è il terzo operatore portuale al mondo. La stessa compagnia Emirates cresce del 20% all’anno.

E’ comprensibile che tali successi hanno spinto paesi come il democratico Brazile ha seguire questa linea di sviluppo. La Petrobras, industria energetica, è il fiore all’occhiello del capitalismo di stato “verde – oro”. Prima privatizzata con il vento del neo – liberismo agli inizi degli anni Novanta è stata ri – nazionalizzata con la Presidenza Lula nel 2007: Il 39% delle società quotate in borsa brasiliane sono di proprietà governativa.

Tali “Golia” del capitalismo di stato si muovono e comprano. Il New York’s Chrysler Building è caduto nelle mani di Abu Dhabi e il Manchester City Football Club al Qatar. I cinesi hanno una frase per questo “The state advances while the private sector reatreats”. Sembra essere vero.

Il Brasile è solo l’eccezione che conferma la regola. Senza un controllo capillare della società come avviene in Cina, nei Petrostate e in parte in Russia, il capitalismo di stato non potrebbe proliferare.

L’esempio sovietico invece sancisce la regola. Le riforme economiche avviate da Mikail Gorbaciov nel 1985 (Glasnost e Perestrojka) volte all’apertura del mercato come avvenne in Cina con Deng Xiaoping, sono fallite miseramente quando l’establishment del Cremlino perse il controllo della società nel 1991. Infatti, il golpista – salvatore Boris Yelsin, in nome dei valori democratici, privatizzò tutte le aziende di Stato mandando la Russia, ereditiera dell’Impero sovietico, in bancarotta nel 1998.

Il nuovo corso “putiniano” iniziato nel 2000 fu scandito a più riprese da nazionalizzazioni di tutti i settori ad alto interesse nazionale come il credito (Sberbank), l’energia (Gazprom) e i trasporti (Aeroflot). E’ innegabile che tale politica economica ha ridato vigore e potenza a Mosca.

E’ utile finire con una domanda. Come nella terra dei Soviet, la fine del Partito Comunista Cinese potrebbe coincidere con la fine della “mano visibile” del capitalismo di stato? Oppure il grido sarà Capitalisti di Stato di tutto il mondo unitevi? Qualcuno si sta rivoltando nella tomba…

Foto The Economist

Di Gianluca Pocceschi

scrittore, ricercatore indipendente e analista geopolitico. Nasce a Grosseto nel 1981. Negli anni accademici esplora l’Europa dalla Faculté des Lettres, Langues et Sciences Humaines di Angers. Si laurea in Relazioni Internazionali all’Università di Perugia e dopo studi sulla dissoluzione dell’ex Jugoslavia vola all’Ambasciata d’Italia a Belgrado.
Nei Balcani inizia a scrivere e dopo collaborazioni con testate online fonda geuropa.it
Frontiere senza nazioni è il suo esordio letterario.